Come mai in Italia, un paese noto fin dall’antichità per le sue fonti, il 98,2 degli abitanti compra l’acqua imbottigliata? Il boom dell’acqua minerale è stato costruito lentamente, a scapito del sistema pubblico di gestione e di controllo delle risorse idriche.
Prima di tutto sono stati tagliati i fondi destinati alla manutenzione pubblica, per transitare per la mercificazione dell’acqua e nella privatizzazione dei servizi d’acqua, per giungere alla “semina” tramite il campo mediatico. Ce n’è voluto di tempo, ma il risultato ha centrato l’obiettivo che si era imposto. Gli spot sono stati così efficaci che ormai niente sembra distogliere i consumatori dalla convinzione che l’acqua del rubinetto sia veleno. Il business delle acque minerali ha recuperato uno strumento potente di stimolo e di ‘legittimazione’. Perché non mercificare anche l’acqua potabile, si sono detti gli operatori privati? Che differenza c’è – domandano – tra l’acqua potabile e l’acqua minerale? Se la mercificazione di quest’ultima non solleva nessun problema economico, politico, sociale, etico, perché – si chiedono il consumatore e il finanziere – si deve impedire di vendere e acquistare l’acqua potabile come ogni altra merce? Perché le imprese private non dovrebbero prendersi cura anche dei relativi servizi idrici?
Oggi più della metà della popolazione italiana non beve l’acqua del rubinetto ed è disposta a riempirsi la casa di bottiglie d’acqua, che una volta vuotate vanno poi a riempire le discariche, pagando l’acqua imbottigliata dalle 300 alle 600 volte più di quella che viene fornita dai nostri acquedotti. Gli italiani non credono agli amministratori né all’Organizzazione mondiale della sanità e già in un rapporto del ’99, non ci si capacitava del fatto che «benché l’acqua fosse disponibile e di buona qualità solo il 47 per cento delle famiglie italiane intervistate dichiara di bere l’acqua del rubinetto». Eppure la legislazione italiana ha parametri molto restrittivi per l’acqua di rubinetto mentre quelli per l’acqua minerale sono notevolmente minori e più laschi. Già solo per questo ne deriva che l’acqua di casa sia più sicura, non avndo traccia delle 19 sostanze che dovrebbero essere controllate molto attentamente, come arsenico, cadmio, nichel, cromo trivalente e nitrati.
La legge, per esempio,dice che per i neonati l’acqua non può contenere una concentrazione di nitrati superiore a 50 mg/l, ma dice anche che se ne contiene fino a 10 mg/l il produttore può spacciarla come «particolarmente adatta per la prima infanzia». Significa solo che è inquinata, ma meno delle altre.Eppure gli italiani vantano il primato mondiale dei consumi di acqua minerale: 182 litri all’anno a testa per un totale di 260 euro di spesa per ogni famiglia. Complessivamente sono più di 11 miliardi di litri (con un’impennata dell’8,2% sul 2002) prelevati quasi gratuitamente da 180 fonti pubbliche e imbottigliati a prezzi esorbitanti per quasi 300 marche: un metro cubo di acqua potabile costa 43 centesimi di euro, un metro cubo di minerale tra 300 e 500 euro.
Il 70 per cento del mercato è in mano a poche multinazionali: Nestlè (26% con Pejo, Lievissima, San Pellegrino, Panna, Recoaro,..), Danone (9% con Ferrarelle, Vitasnella, Sant’Agata,..), San Benedetto (19% con Guizza, Nepi, San Benedetto,..) e Co.ge.di (8% con Uliveto e Rocchetta).
I costi di produzione sono minimi perché lo sfruttamento delle fonti demaniali avviene con il sistema delle concessioni pubbliche da cui lo Stato, in base ad un decreto regio del 1927, ricava pochi spiccioli. Quel che è più grave è che oltre l’80 per cento delle acque minerali è imbottigliato in contenitori di plastica e i costi dello smaltimento ricadono sulle Regioni e sui Comuni, che in definitiva spendono più di quanto incassano. A conti fatti, le imprese delle acque minerali pagano la materia prima meno della colla per l’etichetta.